Cassa Galeno

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Centralità del paziente, tecnologia ed efficienza medica

prof. Marcello Negri

Oggi, la centralità del paziente si confronta quotidianamente con l’enorme sviluppo della tecnologia medica e con la richiesta di efficienza causata della crisi economica. Su queste problematiche, l’inizio del 2016 ci ha proposto due articoli di ampio respiro: il primo è di Claudio Magris, illustre germanista, accademico, autore di importanti monografie, il secondo è di Pamela Hartzband e Jerome Groopman, quest’ultimo professore nella Harvard Medical School, che anche in passato ha affrontato l’argomento qualità della vita.

Claudio Magris

centralità del paziente

Magris (1) dialoga con le recenti opere di tre eminenti clinici, rispettivamente Alfredo Zuppiroli (Le trame della cura. M. M. Bulgarini Edizioni 2014), Gianfranco Sinagra (La cardiologia del futuro. www.socialnews.it) e Giuseppe Remuzzi (La scelta. Perché è importante decidere come vorremmo morire. Sperling & Kupfer 2015).

Per sintetizzare il concetto di umanizzazione della medicina si avvale di una reminiscenza dell’oncologo Gianni Bonadonna, al quale il maestro statunitense raccomandò che “è più importante sapere quale tipo di paziente è colpito da una determinata malattia che non quale malattia affligge il paziente”. Merita chiosare che in questo senso sono molto utili i principi della medicina narrativa (2), che in Italia hanno avuto larga accoglienza.

Subito dopo, Magris si chiede: “In quale rapporto si pone – con l’imperativo di questa attenzione al singolo individuo – la tecnologia?”. Si sofferma “sul duplice effetto della tecnologia che allontana e avvicina”, sulle linee guida che sono necessarie ma non possono essere l’unico strumento di approccio a tutte le situazioni, sull’”equità di accesso alle cure che coinvolge la società nel suo insieme, spesso non solo nazionale”. Fa capire il dilemma che comporta ogni scelta; e che debbono esserci obiettivi irrinunciabili, quali il numero e la qualità dei professionisti, l’approccio collegiale al paziente cronico, la qualificazione dell’ambiente sanitario. Conclude soffermandosi sul dramma del medico di fronte alla morte di un paziente: errore o complicanza non sempre prevedibile, e auspica: la medicina deve partecipare alla ricerca del significato della morte e dei riti sociali e culturali con cui si cerca di affrontarla, senza accanimento terapeutico né petulanza eutanasica.

Pamela Hartzband – Jerome Groopman

Per quanto riguarda la centralità del paziente, questi autori avevano già definito nel 2009 la qualità di vita come la cifra per l’uomo  “di vivere oltre la sua capacità di funzionare sul piano puramente biologico” (3). Un approccio senz’altro condivisibile.

Oggi ritornano sull’autorevole New England Journal of Medicine per affrontare quello che è definito – negli USA – taylorismo medico (4). F. Taylor, noto come il padre del managment scientifico, sostenne che “ogni lavoro potrebbe e dovrebbe essere studiato scientificamente, misurato, temporizzato, e standardizzato per portare al massimo l’efficienza e il profitto… in passato l’uomo è stato in primo piano, in futuro deve esserci il sistema”. L’avere la Toyota applicato con successo questi principi alla fabbricazione delle automobili e la ricaduta della crisi economica sul campo medico, hanno permesso al taylorismo di affacciarsi in diversi ambienti sanitari, dagli ospedali all’insegnamento universitario.

Gli autori constatano l’ambivalenza del taylorismo: certo i controlli temporali danno risultati economici, ma i pazienti – accorgendosene – avvertono frustrazione; l’aderenza a protocolli standardizzati e a determinate tempistiche salva molte vite, ma ci sono scelte che richiedono tempo e devono essere ad personam “proprio per evitare errori cognitivi che risultano in errori medici”; l’uso dei questionari fa risparmiare tempo ai sanitari e escludere dimenticanze, ma impedisce l’acquisizione di problematiche che solo un colloquio prolungato fa emergere; la maggiore efficienza potrebbe lasciare maggiore libertà ai medici, ma “in realtà sono proprio i medici che chiedono di poter dedicare maggiore tempo ai pazienti”.

Infine concludono in modo piuttosto singolare: citano l’affermazione, certamente polemica, di un neurologo di Boston: “i molteplici fautori del taylorismo medico hanno tutti una caratteristica in comune: vogliono per sé e per la propria famiglia un tipo di assistenza differente rispetto a quella che professano per tutti gli altri”.

Un assist

Uno studio clinico randomizzato è stato pubblicato a poca distanza dal contributo su riportato. Per verificare la qualità dell’organizzazione del lavoro medico, Karl I. Bilimoria et Al. (5) hanno preso in esame i programmi di 4.330 “residents” in forza nei reparti di chirurgia generale di 117 ospedali e hanno costituito due gruppi: A) chirurghi che osservavano obblighi-orari flessibili e meno restrittivi e B) chirurghi sottoposti a obblighi-orari standard. In base all’analisi delle cartelle cliniche di 138.691 pazienti, gli autori hanno valutato per ciascun gruppo l’associazione con morte, complicazioni gravi e sicurezza in generale. E hanno concluso di non avere riscontrato maggiori conseguenze negative nei pazienti dei chirurghi del gruppo A rispetto ai pazienti dei chirurghi del gruppo B, e che non sono emerse sostanziali differenze fra i due gruppi per quanto riguarda sia la soddisfazione dei pazienti e dei professionisti sia il benessere e la formazione di questi ultimi.

 

Bibliografia

1.   C Magris. La cura del malato (e poi della malattia). La lettura/ Corriere della sera 2016, 10

gennaio, pag. 4.

2.   R Charon. Narrative medicine. A model for empathy, reflection, profession, and trust. JAMA

2001, 286, 1897.

3.   P Hartzband, J Groopman. Keeping the patient in the equation – humanism and health care

      reform. New Engl J Med 2009, 361, 554.

4 .  P Hartzband, J Groopman. Medical Taylorism. N Engl J Med  2016, 374, 106.

5.  K I Bilimoria et Al  National cluster-randomized trial of duty-hour flexibility in surgical

     training. New Engl J Med 2016 February 4. DOI 10.1056/NEJMoa1515724